Mercoledì 30 marzo
La tensione è al massimo. Gesù provoca i Giudei addirittura nel loro territorio, a casa propria. E’ tornato a Gerusalemme, ha fatto miracoli in giorno di sabato, perdona i peccati e si dichiara Figlio di Dio. Di fronte al loro rifiuto pieno di ostilità, il Maestro non entra in polemica, non si attarda in spiegazioni che fraintenderebbero, risponde con una testimonianza appassionata sul suo rapporto unico col Padre.
Apre uno spiraglio sulla vita divina manifestando agli uomini la sua intima essenza. Lui si sente amato dal Padre ed è unito a lui non solo nell’essere, ma anche nell’operare. I due sono una cosa sola. L’affermazione che fa inorridire i farisei spalanca la porta del mistero trinitario e anche della partecipazione nostra a questa vita divina.
Gesù chiama Dio Abbà, il termine aramaico, che potremmo tradurre nelle lingue moderne con “papà”, “babbo caro”, e che esprime la tenerezza affettuosa di un figlio. Questa semplice espressione del linguaggio infantile, in uso quotidiano nell’ambiente di Gesù e presso tutti i popoli, assume un significato dottrinale di profonda rilevanza: anche noi possiamo chiamare Dio col nome di Padre. Ed è Gesù stesso a insegnarcelo attraverso la preghiera del Padre nostro.
Mai un Dio era stato chiamato così. Questo tipo di relazione tanto intima era sconosciuta a qualsiasi religione, anche a quella ebraica dove si era fatta esperienza di “un Dio vicino”. C’era bisogno dell’incarnazione, cioè che il totalmente Altro si facesse uno di noi, carne della nostra carne, perché potessimo considerarci figli di Dio e potessimo intessere con lui un rapporto di profonda intimità, una meravigliosa partecipazione all’intimità celeste di Cristo con il Padre.
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